LO SMALTO PERMANENTE

Tornò sei mesi dopo, in ritardo sull’universo e in anticipo sulla fine.”È meglio del gel”, disse, spingendo le dita verso la luce come una martire che offre le stimmate alla scienza. “Non si è tolto nemmeno coltivando i carciofi.”

Carciofi. Aveva detto carciofi. Elsa, l’operatrice, la guardò con un misto di rispetto e terrore. Quella donna non mentiva. Non ne era capace: il trucco era colato, i capelli crespi parlavano di risse con i giorni, e quell’unghia… quella unghia brillava come un’entità autonoma, superiore, autosufficiente.

Era un prodotto nuovo, una sottocategoria dello smalto usato per verniciare le Aston Martin, pareva. In un rigurgito di genio chimico e noia industriale, un tecnico aveva trasformato la resina per carrozzeria in cosmetica estrema. Nessuno si aspettava che si legasse esistenzialmente alla cheratina. Nessuno, tranne forse Sartre.

Elsa iniziò il rituale di rimozione. Prima con delicatezza: solvente, impacco, preghiere a basso volume. Poi con strumenti: lime, bastoncini d’arancio, puscher. Infine con strumenti proibiti: acido cloridrico e un frammento di uranio impoverito acquistato su Etsy.

Niente. L’unghia mostrava il suo ghigno interiore con la calma atarassica di chi ha scoperto l’eternità. Fu allora che prese la fresa con la punta scanalata a fascetta nera, il cigolato infernale delle frese. Impostò la velocità al massimo e — con una gestualità tra il tantrico e il sadico — la appoggiò sull’unghia.

Il metallo tremò. La punta cominciò a roteare, veloce come un pensiero autodistruttivo in una domenica pomeriggio. L’attrito salì, la temperatura pure. Un lampo. Una scintilla. La fresa venne a contato con un residuo oleoso di idrocarburo secreto dalla cliente vegana che faceva spuntini a base di bucce di Durian e corteccia di betulla. Ci fu un sibilo, una vampata, poi il salone divenne una stella nova estetoplastica. Un boato. Vetri infranti. Il pavimento si aprì. Tutto fu distrutto.

Tranne l’unghia.

Volò via come un frammento sacro, un reliquiario moderno, atterrando, giorni dopo, sul cofano di una curatrice del MoMa in visita a Brooklyn per un brunch immersivo.

Oggi è lì, in una teca a temperatura controllata. Accanto c’è scritto:

“Immutabilità dell’effimero. Trovata dopo la deflagrazione estetica di un salone di periferia. Autrice: ignota.” Oggi l’unghia è considerata una metafora dell’ostinazione femminile.