Ore 15:47.
Un orologio a cucù rugginoso grida il suo ultimo “cucù” prima di rompersi per sempre. Una cliente entra nel salone con l’aria di chi ha preso una rotonda per sbaglio e adesso ci vive. Ha un cappotto grigio che non è né elegante né deprimente, solo passivo. Lo sguardo vago e una missione chiara: rifare le unghie. Solo questo. Una cosa semplice. Un refill e via. Tu le offri la palette dei colori. Un ventaglio di colori, tutti sbagliati nel modo giusto. Lei la prende. La osserva. E lì, qualcosa si inceppa. Ti dice, insicura .. «Fammi pensare solo un secondo.»
All’inizio è solo un minuto. Poi cinque. Poi dodici. Tu continui a limare altre clienti, servi un caffè, metti un sottofondo chill. Sblocchi due livelli di Candy Crus. Lei è lì. Immobile. Con la palette tra le mani come fosse una tavoletta ouija. La guarda con la stessa concentrazione con cui uno scimpanzé analfabeta guarda un trattato sulla Critica della Ragion Pratica, scritto in greco. E allora succede. Le pupille si dilatano. Il respiro si fa più lento. E … cade dentro la palette. Ci cade dentro. Non fisicamente (ovviamente), ma nella maniera in cui una coscienza cade dentro sé stessa: una spirale, un collasso gravitazionale dell’identità attorno a ciò che avrebbe potuto essere.
Si risveglia in un corridoio circolare, pavimenti glitter, muri effetto opaco. Un centro commerciale progettato da Escher dopo una separazione. Le stanze sono tutte illuminate da neon rosa pastello. In ogni porta, una tonalità e dentro ogni stanza, una versione di sé con unghie diverse. In una, ha scelto il bordeaux ed è diventata amministratrice delegata di una startup che vende silenzi (prodotti di cui si percepisce il valore solo quando mancano).
In un’altra, ha puntato sul cremisi e vive in Portogallo con un compagno che cucina benissimo e non la contraddice mai. Lei cammina. Ogni scelta mancata si fa eco. «Se avessi scelto il taupe…» «Se quel giorno avessi osato il petrolio…» Ma ormai è tardi. È intrappolata nel Labirinto delle scelte Potenziali.
Nel mondo reale, tu la guardi. Ha gli occhi aperti ma non dice nulla. La palette stretta tra le mani con la presa di chi ha capito troppo tardi. Ogni tanto bisbiglia: «Magari un nude… ma con sottotono arancio… no… forse un glicine, ma triste…». Ti avvicini, le parli piano. Niente. Sussurri: «Un rosso classico?» Lei ti guarda. Ti attraversa con lo sguardo come se avessi appena chiesto se crede ancora nell’amore. Nessuno sa cosa sia successo davvero. Alcuni dicono che, se resti troppo tempo a guardare una palette, questa comincia a guardare te. Che se scegli troppo a lungo, finisci per essere scelto prima da qualcosa che non capisci. Ogni tanto, adesso, se guardi bene, tra i colori della palette, ce n’è uno che non dovrebbe esserci. Che nessuno sceglie. Ma che, se aspetti troppo, sceglie te.